Oltre la finanza

Nel precedente post di questa serie, abbiamo iniziato a vedere come proprio la struttura a network della finanza mondiale sia stata responsabile del principio che ha guidato gli interventi pubblici nella crisi del 2008, quello secondo cui alcuni istituti erano “too big to fail” e dovevano essere salvati a ogni costo. Il principio, dal punto di vista della stabilità del network, ha senso: dal momento che gli hub, ossia i nodi con maggior numero di connessioni, sono vitali per la stabilità della rete mentre i nodi più piccoli possono cadere ed essere facilmente sostituiti senza conseguenze di grande rilevanza, in caso di crisi è opportuno concentrare gli sforzi nei punti critici. All’atto pratico, tutto ciò si è tradotto nel massiccio ricorso al bail-in, ossia a massicci interventi delle banche centrali e della finanza pubblica a sostegno degli istituti finanziari messi in difficoltà dalla loro crisi, ossia dal deterioramento dei titoli di credito che detenevano e dagli strumenti derivati che vi facevano perno.

Le conseguenze di questa soluzione si sono subito manifestate. La prima è il moral hazard: dato che le perdite sarebbero state ripianate da interventi pubblici, gli istituti finanziari si sono, di fatto, trovati senza incentivi a ridurre il rischio del loro pacchetto creditizio e soprattutto la leva finanziaria, ossia i derivati. Per meglio dire, questi incentivi sono stati introdotti rafforzando alcuni vincoli esterni, come i cosiddetti parametri Basel, ma il quadro resta quello: in caso di crisi, gli hub vengono sostenuti da risorse prelevate all’esterno del sistema e pertanto la loro tendenza a moltiplicare le connessioni non viene compensata da un incremento di vulnerabilità, il che li rende sempre più strategici e, quindi, ancora più necessari di prima. Il moral hazard, insomma, non è (soltanto) un rischio morale, che incoraggia comportamenti poco encomiabili, ma un rischio di sistema, che non può essere contenuto introducendo vincoli nei processi decisionali.

L’altro problema, forse meno noto ma ancor più pressante, sta nell’asimmetria delle esternalità: dato che la finanza traduce nei suoi termini tutte le istanze che vi si collegano, ciò che non vi rientra non viene registrato in alcun modo. Per esempio, il valore di un’azienda dipende dai suoi volumi di fatturato, dai profitti e dagli asset che possiede, non dalla sua capacità di soddisfare bisogni o dagli eventuali costi che impone al resto della società, per esempio quelli ambientali. Se tutti questi aspetti restano, come abbiamo visto in precedenza, delle esternalità per il contesto finanziario, questo contesto è però potentemente interiorizzato in quello precedente: per rimanere all’esempio di cui sopra, il valore finanziario è un parametro decisivo perché un’azienda possa operare e persino esistere. Dal momento che sono garanti di questo valore, gli istituti finanziari devono essere tutelati pressoché a ogni costo dal rischio di default, assorbendo risorse da tutti gli altri ambiti economici, mentre non vale la reciproca: quella gerarchia tra hub e nodi semplici che abbiamo visto all’interno dei network, e di quello finanziario in particolare, si ripropone anche nel rapporto tra la finanza, che è l’hub universale dei rapporti tra stati, aziende, mercati e parti sociali, e tutti gli altri contesti.

Dunque, il predominio della finanza sarebbe radicato nella struttura stessa dei network e quasi necessario, soprattutto tenendo conto delle caratteristiche di maggior robustezza, flessibilità, adattabilità e capacità evolutiva che la forma del network garantisce rispetto alle classiche gerarchie rigide tipiche dell’architettura top-down che caratterizza, ad esempio, il modello industriale classico. In questo senso, la capacità della tecnologia digitale di superare le limitazioni e le forzature dell’industria potrebbe sembrare la soluzione giusta, ma al problema sbagliato: noi non viviamo più secondo un modello economico e sociale, oltre che culturale e politico, di tipo industriale, ma finanziario.

Come abbiamo visto, la definizione del modello non deriva da una necessità ineluttabile ma è un atto politico, nel senso più ampio, e forse più nobile, del termine. Si può dire che la seconda parte della grande crisi iniziata nel 2008 possa essere stata, in questo senso, un punto di svolta: quando, nella crisi delle banche cipriote del 2012-2013, l’Eurogruppo ha rifiutato la logica del bail-out usando per la prima volta nel corso della crisi finanziaria la formula del bail-in, l’intero modello finanziario è stato messo in crisi. Infatti, se viene meno la condizione essenziale, per cui le crisi del sistema finanziario vengono coperte a qualsiasi costo e, anzi, la loro soluzione viene spostata all’interno del sistema stesso, allora gli effetti del moral hazard e dell’asimmetria delle esternalità possono essere neutralizzati, se non rovesciati. 

Il passaggio successivo è stata la crisi del debito sovrano, che ha costretto diversi Paesi europei a pesanti misure di austerità proprio perché le loro obbligazioni non erano più tutelate direttamente e a scatola chiusa dalla banca centrale, dagli organismi comunitari e dall’insieme dei Paesi membri. Qui sono significativi due aspetti: il rifiuto di mutualizzare il debito pregresso e l’impegno a proteggere l’Euro come strumento di coesione del progetto europeo (il celebre “whatever it takes”). In questo modo, si è arrivati di fatto a qualificare il debito, introducendo una distinzione sostanziale tra il semplice dato finanziario e gli impieghi. Le numerose condizionalità imposte alla spesa pubblica non vanno infatti viste (almeno, non soltanto) come costrizioni “iperliberiste” ma, al contrario, come il rovesciamento della tendenza al continuo consolidamento del predominio della finanza attraverso il ricorso indiscriminato al debito per finanziare la spesa corrente.

I titoli pubblici, infatti, hanno una funzione fondamentale nella costruzione degli strumenti finanziari derivati, quella di formare il collateral, o sottostante: in altre parole, una certa quantità di debito pubblico costituisce la base di pacchetti di debito sempre più grossi, proprio perché sempre esigibile. I mercati finanziari, pertanto, hanno un estremo bisogno di questa risorsa ed emetterla senza freni significa porsi in una posizione di debolezza e ricattabilità, che fa leva sul prezzo, ossia sulla quota di interessi, come si vede dai movimenti dello spread. Limitare queste emissioni, quindi, significa rovesciare questi rapporti di potere, attuando una strategia simile (ma opposta) a quella avviata da Thatcher e Reagan per demolire lo Stato sociale: starve the beast, ossia ridurre le risorse per ridurre il peso e il potere di un apparato schiacciante.

Nella crisi attuale, molto diversa dalla precedente e ancora ben lungi dall’essere compresa, potrebbe giocarsi una nuova fase di questa partita decisiva. Le finanze pubbliche europee sono, almeno per il momento, ben più solide e meglio organizzate che nella crisi precedente e si è arrivati a un sostanziale decoupling tra le sorti dei mercati finanziari e quelli dell’economia reale. Al tempo stesso, il nuovo programma della Commissione sembra, e forse ancor più l’insieme degli strumenti varati per questa emergenza, voler definire una linea ben precisa: un progetto di sviluppo comune, rispetto al quale le risorse finanziarie sono riportate al ruolo di strumenti.

Di che modello stiamo parlando? Queste misure sono sufficienti o, per lo meno, vanno nella direzione giusta? Dovremo parlarne nel prossimo pezzo.

Info Autore
Chief of Strategy , Tombolini & Associati
Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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