Ma la tecnologia digitale è davvero rivoluzionaria?

Nel post precedente in questa ormai lunga serie, abbiamo visto come la tecnologia digitale comporti la possibilità, persino la necessità, di un radicale cambiamento di paradigma rispetto all’attuale modello economico sociale. Basta darsi un’occhiata intorno, però, per dubitare di un’affermazione così perentoria, anzi, per notare che nel mondo di oggi, in cui è indubbio che la digitalizzazione si stia diffondendo in modo sempre più massiccio, sembrano prevalere tendenze di segno diametralmente opposto. Infatti:

  • la centralità della finanza non è affatto diminuita, anzi, si è accresciuta: secondo le stime della Banca Mondiale, la capitalizzazione totale dei mercati finanziari mondiali è di circa 90mila miliardi di dollari, più o meno quanto il PIL mondiale, ma il valore complessivo dei derivati finanziari oscilla, a seconda delle stime, tra i 640mila miliardi e il milione di miliardi. Questa immensa crescita del mercato dei derivati è dovuta, almeno in parte, alle possibilità operative offerte dalle connessioni digitali, che hanno enormemente accresciuto la velocità e il numero delle transazioni.
  • la costruzione di monopoli non è certo una novità degli ultimi anni, ma le tendenze alla concentrazione del mercato sono evidenti, proprio nei campi in cui la tecnologia digitale è più presente. Di fatto, la sostanziale abolizione delle distanze spaziali e delle barriere ha favorito la concentrazione di utenti, transazioni e contenuti su poche piattaforme; come in ogni monopolio, conta poco il fatto che i vincitori della corsa siano di fatto i più efficienti, capaci, innovativi o comunque i migliori: il punto è che il loro predominio si trasforma in una rendita di posizione che, necessariamente, frena innovazione e sviluppo (ne ho parlato tempo fa, insieme a Stefano Tombolini, qui).
  • la flessibilità organizzativa resa possibile dalla digitalizzazione ha reso possibile un salto di qualità alle pratiche di dumping sociale, fiscale e ambientale: se l’industria classica aveva una certa inerzia che rendeva difficile ricollocarsi ogni volta che si creavano condizioni esterne più favorevoli, oggi questo freno è decisamente meno forte, il che finisce per facilitare quel processo di esternalizzazione che, come si è visto, rende l’attuale modello economico sempre meno sostenibile.

Questi aspetti potrebbero essere ricondotti a quella che potremmo definire una capacità di adattamento marginale di un modello economico e sociale a tecnologie che, per quanto potenzialmente distruttive per il modello stesso, ne vengono assorbite almeno in una prima fase. Un esempio storico di questo processo è il rapporto tra industrializzazione e schiavitù: se alla fine la schiavitù è stata abolita proprio perché l’industria moderna aveva bisogno di operai salariati e non di schiavi (mettendo gli stati industriali del Nord degli USA in grado di sconfiggere quelli schiavisti del Sud), all’inizio fu proprio l’espansione dell’industria tessile britannica e l’introduzione di macchinari industriali come la cotton gin di Whitney a creare la domanda di cotone e a potenziare la capacità produttiva, incrementando di fatto il ricorso alla manodopera schiavizzata.

Insomma, a limitarsi a questi aspetti, ci si troverebbe di fronte a un fenomeno di inerzia organizzativa, per cui le tecnologie digitali vengono adottate in forma massiccia nella misura in cui sono adatte al modello vigente, per poi sviluppare inevitabilmente il loro potenziale rivoluzionario, secondo il classico schema dell’eterogenesi dei fini. Si tratta di uno schema francamente un po’ ingenuo, simile a quello che una certa tradizione marxista definisce la contraddizione tra forme di produzione e forze di produzione: le prime sono quelle tipiche del capitalismo industriale, le seconde definiscono l’insieme di tecnologie e rapporti sociali che si è sviluppato in quest’ambito e che portano con sé bisogni e prospettive incompatibili con questo modello. Sarebbe fin troppo ovvio notare che le cose non sono andate effettivamente così e che in effetti il precedente non promette benissimo. Il fatto è che esiste uno scarto reale tra un modello le cui istituzioni si sono sviluppate, in ultima analisi, a partire dalla produzione di manufatti e i processi tipici del digitale, uno scarto simile a quello tra gli istituti del welfare state sorto dai processi produttivi e dagli scenari politici tra la fine dell’Ottocento e gli anni Sessanta del Novecento, e i ritmi e le esigenze della cosiddetta globalizzazione neoliberista, tali da scardinare anche i presupposti fondamentali di gran parte delle concezioni di stampo marxista.

Il vero dato di cui bisogna tener conto, però, è quello del modello di network dei processi digitali, radicalmente diverso dall’organizzazione ad albero tipica delle strutture industriali classiche. I network sono strutture altamente dinamiche e decentrate, in cui i diversi componenti non si trovano organizzati in strutture lineari ma si connettono tra loro a partire dalle relazioni che instaurano. Una caratteristica fondamentale di questo modello organizzativo, che non è certo un’esclusiva delle reti digitali ma si trova ovunque, nelle società umane e in natura (tanto che in molti casi descrive gli ecosistemi in modo molto più efficace rispetto alle classiche strutture gerarchiche), è la sua apertura o, meglio, la sua espandibilità indefinita. Infatti, se un network è costituito essenzialmente da nodi e connessioni, l’aggiunta di nuovi nodi (o gruppi di nodi, i cluster) avviene semplicemente connettendoli a un nodo già esistente, con una straordinaria efficienza ed economia.

Da questo punto di vista, potrebbe sembrare che la struttura a network sia incompatibile con le caratteristiche di concentrazione monopolistica, dumping guidato dall’esternalizzazione e prevalenza della finanza che abbiamo appena visto caratterizzare il mondo di oggi. Il problema è che, nonostante le apparenze, i network non sono strutture orizzontali, paritarie e “democratiche” ma che, anzi, sono organizzati secondo una loro gerarchia. Lo dimostra il modello elaborato da Albert-László Barabási: i diversi nodi si distinguono tra loro per una distribuzione non omogenea delle connessioni (alcuni ne hanno di più, altri di meno) che non può essere ricondotta a fattori casuali ma si fonda su una legge di potenza tale che un ristretto numero di nodi ospita un elevato numero di connessioni, tanto più preponderante quanto più il network stesso si espande.

In altre parole, quella a cui stiamo assistendo può essere definita come una forma di adattamento simbiotico: la struttura gerarchica dei network digitali si è adattata alla perfezione a un’altra struttura a network, quella dei rapporti tra corporation nel mercato finanziario. Anche qui, infatti, siamo alla presenza di una rete di rapporti potenzialmente infinita, connessa da transazioni che, strutturando un network estremamente complesso e ramificato, esaltano la legge di potenza e, conseguentemente, il ruolo dei nodi prevalenti. Tutto questo produce una radicale messa in discussione delle strutture tradizionali di potere, basate su organigrammi rigidi, e favorisce l’espansione indefinita dell’accoppiata di mercato finanziario e network digitali, proprio perché questa avviene con la massima semplicità, attraverso transazioni elementari come la compravendita di titoli. 

Per questo sembra difficile che, da sola, la tecnologia digitale possa portare a superare i giganteschi problemi di sostenibilità del modello attuale. Per meglio dire, sembra che alcuni aspetti del suo paradigma di funzionamento siano fortemente funzionali a questo modello; ciò non toglie che ve ne siano altri completamente incompatibili e che, una volta individuati, possano fornire una chiave per comprendere, accompagnare e persino guidare una possibile nuova transizione.

Di questo, però, dovremo parlare nel prossimo articolo.

Info Autore
Chief of Strategy , Tombolini & Associati
Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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