Sembra chiaro che la fase 2, per quanto ancora tutt’altro che ben definita, vedrà fin dall’inizio consistenti riaperture di fabbriche e impianti produttivi. Per quanto sembri una priorità scontata, può aver senso porsi qualche dubbio. Innanzitutto, perché proprio le fabbriche? Certo, perché bisogna fatturare, se non si fattura non si incassa, se non si incassa non si pagano gli stipendi, se non si pagano gli stipendi non ci sono soldi da spendere, se non ci sono soldi l’economia non riparte. In pratica, si riaprono le fabbriche perché non ci sono abbastanza soldi per permettersi di tenerle ancora chiuse.
Il problema è che le fabbriche, per come sono organizzate, sono anche luoghi perfetti per la trasmissione di un’epidemia come quella che abbiamo imparato a conoscere: luoghi chiusi, con ventilazione forzata, in cui molte persone entrano in contatto in poco spazio, per poi uscirne e disperdersi nel territorio circostante, il più delle volte urbano, densamente popolato e affollato di incontri e connessioni. D’altra parte, la fabbrica è anche un luogo fortemente organizzato, in cui ogni movimento, ogni relazione segue, almeno in linea di principio, un codice ben definito. Questa natura di luogo chiuso e organizzato permette di definire protocolli di sicurezza rigorosi e affidabili, che definiscano l’insieme di attrezzature, allestimenti e pratiche da cui il rischio di contagio possa venire azzerato o comunque ridotto a livelli accettabili.
Si tratta di un’operazione minuziosa e presumibilmente costosa, ma ampiamente praticabile: la prova, ancora una volta, viene dalla Germania, dove il lockdown, peraltro molto più blando di quello italiano anche in altri settori, ha sostanzialmente lasciato tutte le fabbriche aperte. Basti pensare che i consumi elettrici industriali nelle due settimane centrali di marzo sono calati del 5 per cento in Germania e del 25 in Italia. Certo, il livello di organizzazione dei tedeschi è un’altra cosa e loro hanno definito tutti i protocolli necessari prima del lockdown, oltre a stanziare le risorse che servivano per gli interventi del caso e a farle arrivare davvero dove servivano; ma si potrebbe sperare che in Italia si sarebbe potuti arrivare a qualcosa del genere prima del fatidico 4 maggio. Anche perché riaprire le fabbriche senza che siano sicure sarebbe un modo certo per ricominciare con i contagi e subire, tra l’altro, danni economici ben maggiori.
Al di là di un certo scetticismo sulle misure che potranno venir prese nelle prossime settimane, la questione è soprattutto la natura stessa del tessuto industriale italiano e la sua capacità di rispondere alle necessità di contenimento strutturale delle epidemie (quella in corso, come quelle che sarebbe ragionevole attendersi in un futuro non lontano). Qui è necessario tener presenti due aspetti chiave del modello industriale italiano:
- La sua estrema parcellizzazione con una prevalenza di piccole e medie imprese, che valorizza la capacità di organizzazioni poco formalizzate e con bassi costi gestionali di realizzare economie di processo per la loro capacità di adattarsi alla domanda con costi più bassi e di ottimizzare i singoli passaggi senza grossi sforzi di progettazione. Proprio le caratteristiche delle PMI industriali, con spazi relativamente piccoli, movimenti e comportamenti interni poco formalizzati e liquidità insufficiente per investire sugli impianti, le rendono particolarmente vulnerabili al contagio e onerose da mettere in sicurezza. Inoltre, si creano forti diseconomie di scala: un grande impianto con mille addetti può essere protetto con costi enormemente inferiori e maggiore efficacia di cinquanta fabbriche con venti dipendenti;
- Il sistema italiano, d’altra parte, ha una forte integrazione di filiera: le piccole aziende industriali raramente realizzano prodotti finiti per il mercato (solitamente quello che lo fanno, più che industriali, sono artigianali) e in genere lavorano all’interno di filiere produttive fortemente integrate, in cui l’estrema specializzazione di ogni anello della catena contribuisce al valore complessivo che si realizza solo nel prodotto finito. Rispetto alla minaccia della pandemia, ciò introduce un fattore sistematico di fragilità, dal momento che moltiplica i punti in cui il processo può andare in crisi: è sufficiente che un fornitore si debba bloccare per interrompere tutto il flusso a valle.
In questo senso, è interessante tornare a una notizia del 2 aprile, quando i produttori automobilistici tedeschi si sono confrontati con la cancelliera per analizzare i rischi indotti dalla pandemia sulla loro filiera. In sostanza, il punto era che gli impianti tedeschi offrivano sufficienti condizioni di sicurezza da poter rimanere aperti senza rischi sanitari (e l’andamento dell’epidemia in Germania nelle settimane successive ne ha dato ampia conferma), ma non si poteva dire lo stesso per i fornitori, in particolare in Italia e Spagna, e ciò avrebbe potuto rappresentare un grosso problema. Da qui, l’esigenza di estendere i protocolli di sicurezza tedeschi in altri paesi e di sostenere il fabbisogno di liquidità delle PMI coinvolte. In altre parole, si è invocato un modello di sicurezza della filiera transnazionale del quale, vista la determinazione delle grandi aziende tedesche (e del governo nazionale) nel perseguire obiettivi nel medio-lungo termine, sarà facile che si senta parlare a lungo.
Al di là del caso specifico, che non è certo irrilevante, il tema su cui potrebbe essere interessante riflettere è quello degli effetti di sistema sulla globalizzazione dei processi produttivi e, conseguentemente, sul modello sociale ed economico che ne deriva. Mi piacerebbe dedicare alcuni dei prossimi articoli a questo tema.