Interiorizzare le esternalità

La scorsa settimana ho provato, partendo dai problemi di messa in sicurezza delle fabbriche, a sollevare alcune questioni sulle debolezze dell’attuale modello produttivo rispetto alle sollecitazioni prodotte da una pandemia. Vorrei continuare ad approfondire questo tema, perché mi sembra che lo strato della produzione industriale continui a essere decisivo per determinare le forme organizzative e persino le prassi comportamentali e culturali delle società che fanno riferimento a questa produzione – quelle che continuiamo, con buone ragioni, a definire società industrializzate.

La fase in cui ancora ci troviamo è comunemente definita della globalizzazione dei processi di produzione e consumo e si fonda su tre caratteristiche chiave:

  • ottimizzazione del ciclo produttivo e distributivo, attraverso le economie di scala, l’uniformità dei processi di lavorazione e il controllo in tempo reale dell’efficienza di ogni passaggio;
  • standardizzazione dell’offerta di prodotto, sia per raggiungere il massimo di ottimizzazione, sia per essere presenti sul massimo numero possibile di mercati;
  • flessibilità organizzativa, per essere in grado di cogliere ogni opportunità di miglioramento dei margini e di minimizzare l’impatto degli eventi negativi, riducendo il più possibile i fattori di inerzia.

Tutto ciò ha un presupposto pratico: condizione essenziale per la messa in opera di questi processi è la disponibilità di una filiera logistica affidabile ed efficiente, che permetta ai diversi nodi della filiera produttiva di collegarsi con il massimo di rapidità ed efficacia, sincronizzati nei tempi e sintonizzati nelle modalità della produzione.

Come si può vedere, si tratta sostanzialmente dell’incremento di fattori ampiamente presenti anche nella fabbrica novecentesca (il cosiddetto “modello fordista”). Questo incremento, per così dire quantitativo, si produce in senso sia intensivo (all’interno dei processi produttivi), sia estensivo (coinvolgendo ogni settore e pressoché ogni luogo del mondo). Ora, quando un valore quantitativo supera una certa soglia, esso diventa qualitativo: lo abbiamo visto, per l’ennesima volta, in questi giorni, in cui l’andamento di un flusso puramente quantitativo (per esempio, il parametro R0) determina, eccome, cambiamenti qualitativi evidenti nel nostro modo di vivere, imponendoci un lockdown più o meno soffocante. 

Ciò che conta è che la forma di questo nuovo assetto qualitativo (insomma, la sua stessa qualità) è determinata dall’organizzazione del flusso quantitativo che lo ha prodotto. Così, il nuovo assetto sociale e culturale indotto dalla globalizzazione produttiva ha come suo tratto fondamentale il parametro di riferimento di questo processo, vale a dire l’ottimizzazione del valore lungo tutta la filiera di produzione, intesa come la massima differenza possibile tra il valore a monte (investimento) e quello a valle (ritorno) del processo produttivo. Detta così, sembra una banalità, ma ciò accade solo perché abbiamo completamente interiorizzato questo assunto, proprio perché esso ha determinato il nostro modo di vedere, di vivere, di essere; ma, come si è ripetuto ormai diverse volte, interrogarsi sulle banalità, rimettere in questione ciò che è scontato, è proprio il modo di procedere essenziale del pensiero scientifico (e filosofico, per quel che conta).

Il punto chiave, qui, è che ogni parametro di questo tipo è un’assunzione non neutrale: in altre parole, si decide quali elementi concorrono a formare il valore di riferimento e quali no. In economia, il termine usato è quello di esternalità e l’esempio classico per illustrarne il significato è quello della cartiera. Immaginiamo che nel paese di Rognate di sopra si installi una cartiera. La nuova industria assume personale del posto, diverse aziende locali aumentano il giro di affari e l’incremento del gettito fiscale permette di migliorare infrastrutture e servizi: in pratica, tutta la comunità locale trae vantaggio dalla nuova attività. Solo che, per fare più utili, la cartiera sversa i liquami di lavorazione direttamente nel Ligonchio, il fiume che scorre nel territorio comunale, proprio al confine: il fiume scorre a valle, per cui i rognatesi di sopra non se ne fanno un problema e i maggiori margini di profitto vanno, in misura variabile, a vantaggio di tutti. Diversa è la situazione per gli abitanti del comune vicino, Rognate di sotto, che non hanno nessun vantaggio dalla nuova industria ma che si trovano l’acqua inquinata, i pesci morti e l’economia locale depressa perché non vengono più i turisti, peri quali l’attrazione principale era proprio la pesca alla trota. Ecco, i danni subiti da Rognate di sotto sono un’esternalità per la cartiera e per tutti i rognatesi di sopra: costoro, non venendone toccati, non subiscono pertanto nessun passivo di bilancio e la situazione di quelli di sotto non li riguarda. Che ciò sia immorale è irrilevante, almeno in questa prospettiva: il calcolo interno al processo, semplicemente, esclude ciò che ne resta fuori, non lo vede proprio.

A questo punto, l’unica speranza per i poveri rognatesi di sotto, se non sono in grado di pulirsi il fiume da soli e a proprie spese, è in una qualche istanza comune superiore, come la Regione, lo Stato o la Comunità Europea, che obblighino la cartiera a installare i depuratori del caso. In questo modo, per così dire, l’esternalità viene internalizzata: i relativi costi, invece di essere sostenuti all’esterno del contesto produttivo, entrano nella sua catena del valore. Certo, ora l’azienda può decidere di spostare i suoi impianti nel Kartieristan, paese noto per la sua legislazione estremamente favorevole a questo tipo di industrie. 

In altre parole, anche a voler prestar fede ai dogmi della dottrina economica neoliberista (e qui, se non altro per ragioni di bottega, siamo più inclini ai dubbi che ai dogmi di ogni tipo) e a voler ritenere che il mercato sia sempre il modo più efficiente di gestire le risorse, resta comunque un compito fondamentale per la politica e l’amministrazione, in una parola alla res publica: quello di definire il valore delle esternalità e il suo impatto rispetto ai cicli produttivi. Qui viene in luce la fondamentale importanza del terzo punto visto più sopra, la flessibilità organizzativa: un’azienda poco intenzionata a sostenere questi costi può sempre cercare il Kartieristan di turno e il costo di trasferimento è inversamente proporzionale, appunto, al suo grado di flessibilità organizzativa. Si inserisce, così, nello scenario economico e sociale una continua pratica di dumping ambientale, sociale ed economico, che consiste essenzialmente nella continua ri-esternalizzazione dei fattori che non producono valore rispetto agli investimenti. Ciò produce una progressiva compressione dello spazio di azione, e conseguentemente anche di legittimità, per la cosa pubblica.

Dal momento che il rischio di altre pandemie non sembra affatto peregrino e che esiste un fronte ben più problematico, quello del cambiamento climatico, sembra che vi siano, ormai, alcune esternalità che non possono più essere lasciate fuori. Non si tratta solo di internalizzarle, ma proprio di interiorizzarle: farle diventare parte integrante della progettazione di ogni investimento, di ogni ciclo produttivo, di ogni flusso economico. In questi mesi ci siamo ricordati che eventi di questo tipo non hanno solo una dimensione sanitaria, ma anche una economica, sociale e persino politica; gli altri rischi globali sono di portata ancora maggiore e richiedono una capacità proporzionale, nella programmazione industriale e nell’assunzione di responsabilità da parte della politica e delle istituzioni.

Se, negli ultimi quarant’anni, la globalizzazione dei processi produttivi ha prodotto una grande spinta verso l’esternalizzazione, ora è necessario che, con l’emergere di una categoria di rischi (e anche di opportunità e di capacità di innovazione) di portata inaudita, si debba rafforzare la resistenza del sistema a problemi complessi che non possono essere neppure formulati, e tanto meno risolti, nella semplicità astratta della catena del valore per come si è articolata finora. In questa fase di interiorizzazione si definisce il prossimo orizzonte di azione, tanto sul piano dell’organizzazione produttiva quanto su tutti gli altri strati della società e della sua consapevolezza di se stessa, a partire dal ruolo della cosa pubblica. Qui, ancora una volta, la Commissione Europea potrebbe trovare un terreno d’azione particolarmente efficace per dare forma a questa vera e propria fase 2 della globalizzazione, fondata sull’interiorizzazione delle esternalità come nuovo standard organizzativo e produttivo.

Info Autore
Chief of Strategy , Tombolini & Associati
Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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