In questa trilogia di brevi articoli proviamo a delineare tendenze evolutive dei consumi causate dalla digitalizzazione forzata dalla pandemia di COVID-19.
L’analisi dell’impatto della pandemia di COVID-19 sulla psicologia dei consumi non può prescindere dal processo di digitalizzazione accelerata che si è verificato durante un lungo periodo di distanziamento fisico e isolamento sociale (“lockdown”) in parte imposto dall’alto in parte interiorizzato autonomamente.
A tale proposito Satya Nadella, CEO di Microsoft, ha parlato di due anni di trasformazione digitale in due mesi.
Avremo quindi bisogno di una teoria dei bisogni il più possibile “aggiornata al digitale”, che mutueremo da Digital Disruption di James McQuivey, e di dati settoriali che tengano conto delle conseguenze del coronavirus, come le previsioni economico-finanziarie rese disponibili da Cerved.
Prima di procedere in questo senso, è però necessario sfatare un mito ormai antico, una credenza dolorosamente infranta dalla violenza del “Generale Covid”: l’associazione automatica dell’aggettivo digitale col “mondo virtuale” e dell’aggettivo fisico col “mondo reale”.
Sebbene siano passati ormai 50 anni anni dall’avvento dell’era dell’informatica e delle telecomunicazioni, nel discorso comune si continua a caratterizzare il digitale come fenomeno “nuovo”.
Le cose nuove, si sa, vengono sempre accolte con molta diffidenza.
Se poi la loro materialità è estremamente eterea, come nel caso delle tecnologie digitali, rischiano di non essere guardate affatto nella loro realtà effettiva e rimanere indefinitamente nella gioventù del virtuale.
In filosofia della scienza il “mondo virtuale” è il dominio dell’ipotesi e della possibilità: non c’è contrapposizione col “mondo reale” della misurazione effettiva, bensì compatibilità logica e contiguità spazio-temporale.
Anche se viviamo in un mondo in cui l’informatica ha impresso trasformazioni concrete e visibili, fino a pochi mesi fa eravamo ancora abituati a catalogare sempre e comunque la fisicità come reale e la digitalità solo ed esclusivamente come virtuale.
Senza voler entrare nella questione, alquanto complessa, dell’eventuale virtualità del mondo fisico (l’inchiostro dei conti di libri mastro cartacei potrebbe essere un interessante caso di scuola), ci limitiamo a constatare che l’esperienza traumatica del lockdown ha convinto anche i più aspri critici delle “relazioni virtuali” che persino il contatto digitale (social network, instant messaging, videochiamate, ecc.) è in grado di veicolare emozioni e sentimenti.
Emozioni e sentimenti più naturali e piacevoli di quelli (non) provati durante il distopico contatto fisico con operatori sanitari dotati di dispositivi di protezione individuale a copertura integrale del corpo.
Emozioni e sentimenti vitali e reali quanto la pizza consegnata a domicilio ordinando via WhatsApp e pagando con Satispay, senza il rischio di lunghe file al bancone e di passaggi di contanti alla cassa.
Simili cambiamenti nella psicologia dei consumi dovute alle nuove abitudini d’acquisto, a loro volta dettate dalle esigenze epidemiche, necessitano di una teoria dei bisogni reticolare come le tecnologie digitali, e come il cervello stesso peraltro.Nel prossimo articolo, perciò, sottoporremo al vaglio della critica il celebre paradigma, rigidamente gerarchico, della piramide di Maslow, una critica costruttiva per ricavare un nuovo modello da applicare all’attuale crisi economica e sociale.