Abbiamo visto, nell’articolo precedente di questa serie, come la struttura dei network comporti lo sviluppo di gerarchie, concentrando la maggior parte delle connessioni su un numero ristretto di nodi, che acquisiscono una posizione di dominio rispetto agli altri. Questo principio, codificato dal fisico Albert-László Barabási ed esposto in forma molto accessibile nel suo Link – la scienza delle reti, è tipico di questa struttura anche in ambiti molto diversi: dall’economia alla biologia, dagli ecosistemi alle reti di conoscenze personali, dai riferimenti culturali alle linee di trasporto, fino alle reti informatiche e ai collegamenti digitali. In altre parole, ogni volta che si crea una rete di collegamenti tra diversi operatori, inevitabilmente alcuni di essi ne avranno più di altri, anche per motivi del tutto casuali. Bene, la legge di potenza formulata da Barabási ci dice, in sostanza, che questa concentrazione delle connessioni tende ad aumentare con lo sviluppo del network anziché, come ci si aspetterebbe da una distribuzione puramente casuale, a diminuire.
Proviamo a illustrare questa situazione con un esempio: immaginiamo tutte le persone che conosciamo come una rete, in cui ogni persona è un punto (un nodo) unita a me, come punto centrale, da una linea (un connettore). Molte di queste persone si conosceranno tra loro (altri connettori che non passano attraverso di me) e ne conosceranno altre che io non conosco: aggiungendo anche queste connessioni, la rete si amplia (aumenta di livello). Così, Anna e Mario sono entrambi miei amici ma non si conoscono, la loro connessione passa attraverso di me o un altro connettore comune; allo stesso modo, se Anna è amica di Francesco e Maria, che io non conosco, la mia connessione con loro passa attraverso Anna. Bene, la legge di potenza ci dice che alcuni conoscono molte più persone degli altri e che, quanto più la rete cresce, tante più connessioni passano attraverso di loro. Insomma, se Anna conosce trenta persone e Mario dieci, le connessioni aggiunte da Mario passano attraverso Anna per raggiungere queste altre e così via. In altre parole, Anna è un hub, un nodo più importante di altri. Se Anna uscisse dalla rete, tutti i collegamenti che passano attraverso di lei si “spegnerebbero”: le eventuali persone conosciute solo da lei uscirebbero dalla rete insieme a lei.
Questa gerarchia ha molto senso in diversi contesti. Per esempio, è opportuno che le rotte aeree internazionali passino per un numero relativamente basso di aeroporti, in modo che chi deve cambiare volo possa farlo con la massima facilità, anche se il suo viaggio è iniziato da un punto più periferico. Allo stesso modo, è sensato che il maggior numero di utenti si concentri in pochi social network, per non dover cambiare continuamente piattaforma e offrire la massima visibilità ai contenuti che vengono pubblicati. Al tempo stesso, però, questo tipo di struttura presenta alcune pesanti controindicazioni.
La prima è la rendita di posizione: dato che l’importanza degli hub cresce con lo sviluppo della rete, si arriva facilmente a una massa critica per cui il loro successo è pressoché garantito, visto che i nuovi membri della rete tendono a connettersi proprio agli hub principali. Questa è la ragione per cui l’industria digitale si concentra su pochi grandi dominatori, i cosiddetti Big Five (Alphabet-Google, Amazon, Apple, Facebook, Microsoft).
La seconda controindicazione è la collateralità: i network, spesso, non esistono nel vuoto ma si connettono ad altre dimensioni e ambiti, nei quali gli hub possono moltiplicare il loro predominio. Il vero network principale del nostro modello economico e sociale, quello a cui quasi tutti gli altri sono connessi e da cui dipendono, infatti, non è la rete informatica ma la finanza. In questo senso, la finanza agisce come una sorta di metanetwork, in cui convergono tutte le altre reti e nel quale i principali hub sono, a loro volta, in connessione tra loro, traducendo il loro predominio nelle connessioni in capitalizzazione, che a sua volta fornisce i mezzi per mantenere e consolidare le loro posizioni dominanti.
Forse l’aspetto più importante da inquadrare correttamente per capire il mondo in cui ci troviamo è proprio il rapporto tra la finanza e l’insieme degli altri ambiti di attività. La finanza si pone, esplicitamente, su un piano secondario, derivato rispetto a quello, per esempio, dell’economia reale: il corso delle azioni dell’azienda X dipende dai suoi risultati operativi, la qualità del credito della banca Y è collegata alla puntualità con cui i debitori onorano gli impegni e così via. Insomma, la finanza sarebbe una rappresentazione o, meglio ancora, una traduzione di ciò che accade in altri ambiti del mondo, in particolare dell’economia ma non solo. Da questo punto di vista, se si vuole, la finanza svolge una funzione sociale simile alla politica e alla religione e, oggi, riveste un’importanza superiore a entrambe. In tutti questi casi, infatti, ci troviamo di fronte a dispositivi sociali, ossia a istanze che raccolgono, regolano e uniformano i diversi processi che avvengono all’interno della società, assegnando loro uno specifico valore. Nello specifico, la funzione della finanza è quella di rendere possibile il funzionamento delle aziende gestendo i flussi di denaro che ne collegano le attività. Il punto importante, però, è che questo vero e proprio network finisce per assumere (e imporre) le proprie logiche, fino a costruire una propria realtà autonoma, preponderante rispetto a ciò che dovrebbe rappresentare.
Proprio come la creazione di monopoli e rendite di posizione fa parte della logica organizzativa di un network a invarianza di scala (per usare la definizione di Barabási) e non ne è un problema occasionale, così lo scollamento della finanza dall’economia reale, ben rappresentato dalla crescita smisurata dei derivati e degli altri prodotti della cosiddetta finanza strutturata, è una conseguenza diretta dello sviluppo del network. Ogni sistema, infatti, può cambiare configurazione in modo anche molto brusco, al verificarsi di certe condizioni: come l’acqua, al di sotto di una certa temperatura passa dallo stato liquido a un solido in forma cristallina, così un network, superato un certo livello di complessità, inizia a funzionare in modo autonomo. Questa transizione di fase è, insomma, un prodotto diretto dello sviluppo del network finanziario e, quindi, della sua organizzazione secondo i processi di gerarchizzazione autonoma e organizzata che abbiamo visto prima.
Il modo migliore per capire come funziona qualcosa è osservarlo in una condizione di stress, in una crisi che ne metta alla prova la tenuta e ne solleciti i limiti. Anche se, con ogni probabilità, siamo all’interno di una crisi economica e finanziaria molto rilevante, è molto difficile disporre dei dati necessari e, soprattutto, isolare i fattori decisivi: per meglio dire, sappiamo fin troppo bene della pandemia, ma non siamo del tutto in grado di dire se la crisi sia interamente dovuta al COVID-19 e alle difficoltà di gestire un evento del genere o se quello che sta accadendo non sia riconducibile, e in modo determinante, anche ad altri fattori.
Possiamo però osservare una crisi finanziaria appena trascorsa, quella iniziata nel 2008, sui cui abbiamo molte informazioni e che possiamo osservare da una distanza sufficiente a storicizzarla. Qui è interessante notare un aspetto fondamentale: sempre stando alle osservazioni di Barabási (pagg. 119-154 del testo citato), i network a invarianza di scala hanno una elevata capacità di sopportare errori e malfunzionamenti. In altre parole, se un nodo del network smette di funzionare, le connessioni possono tranquillamente “girarci intorno” passando per altri nodi; soprattutto, questa capacità di riconfigurazione si mantiene anche se viene meno un numero molto ordinato di nodi, dato che lo spegnimento di ognuno di essi comporta una proporzionale diminuzione del traffico da distribuire nel resto della rete. Questo avviene per effetto della gerarchia del sistema: dato che gli hub sono una minoranza sparuta e che i guasti si producono in modo casuale, un numero limitato di errori tende a colpire in prevalenza nodi secondari e, se colpisce un hub, la perdita non è tale da danneggiare l’intera rete. Questa relativa robustezza ha, però, un rovescio critico: se a cadere sono gli hub, allora il collasso può essere rapidissimo.
La crisi del 2008, possiamo anticiparlo, è stata esattamente di questo tipo: il mercato immobiliare americano era entrato in crisi già a gennaio (qui si trova una timeline degli eventi) e la Federal Reserve aveva iniziato a intervenire fin da marzo, con i mercati finanziari che non registravano grosse perdite. Il 15 settembre, però, c’è stato il crack della Lehman Brothers, le cui gravissime conseguenze sui mercati sono apparse sproporzionate a molti osservatori: in realtà, il punto è che Lehman Brothers era un hub e la caduta del suo valore ha immediatamente messo in crisi quella di moltissimi altri soggetti. A questo punto, la regola di base è stata quella di salvare gli hub, tutelando a ogni costo ciò che si riteneva too big to fail.
Nel prossimo articolo, cercherò di approfondire questa analisi, per capire quanto questi problemi siano costitutivi dell’attuale modello e se tutto ciò sia davvero inevitabile.