Sembra proprio che il famoso picco sia stato raggiunto e che sia iniziata la discesa. Se ciò non significa che si debba abbassare la guardia, è altrettanto chiaro che bisogna arrivare a questa famosa fase 2 con un piano ben strutturato, che sia in grado di gestire la riapertura in modo graduale e controllato. Anche a prendere in considerazione soltanto l’aspetto sanitario, sembra che sia necessario provvedere a soddisfare almeno questi tre requisiti fondamentali:
- capacità di individuare rapidamente i nuovi casi e isolarli, per prevenire nuove ondate;
- mobilitazione reale del territorio, per gestire i nuovi casi con più attenzione di quanto sia avvenuto troppe volte nelle settimane di maggiore emergenza;
- gestione intelligente del distanziamento sociale, con misure efficaci che permettano la ripresa di una vita il più possibile normale.
Sarà probabilmente necessaria una buona autocritica, al di là della pur doverosa individuazione di colpe e negligenze e della loro eventuale punizione: quello che conta è che si impari dagli errori, evitando di seppellirli sotto il sollievo dello scampato pericolo. Molti di questi errori possono essere ricondotti a una matrice cognitiva che abbiamo spesso visto all’opera nella storia italiana, tanto che possiamo definirla una sorta di bug di sistema. Si tratta di quella che possiamo definire la sindrome dell’emergenza, caratterizzata da questi elementi:
- focalizzazione sul breve termine (siamo in emergenza, non possiamo permetterci di fare piani!);
- esclusività della prospettiva (il problema è solo questo e può essere affrontato solo in questo modo, il resto sono chiacchiere inutili o peggio);
- rifiuto delle critiche (i dubbi ostacolano l’azione e ostacolano la puntuale esecuzione di ordini e disposizioni).
Non a caso, in questi casi la metafora preferita è quella della guerra e ogni decisione viene comunicata con il cipiglio dei toni bellici: la guerra chiede ogni sacrificio, sospende ogni cautela, sospetta di tradimento ogni dubbio. In altre parole, ci troviamo nel pieno del regno della paura.
Avere paura è naturale. Lo è nel senso più profondo del termine: appartiene alla nostra natura, persino prima che questa si possa definire come natura umana. Proprio per questo, la paura si esprime con una serie di reazioni molto riconoscibili: accelerazione del battito cardiaco, tremore, incremento della secrezione di adrenalina e così via. Soprattutto, la paura è un potente agente di semplificazione, sia perché ci fa concentrare ogni risorsa, mentale e fisica, su ciò che percepiamo come pericoloso, sia perché prevede solo due reazioni, la fuga o l’aggressività.
Per questo, la paura è uno straordinario meccanismo di sopravvivenza se ci si trova nella savana e si viene inseguiti da un predatore, perché ci dà quella fondamentale spinta in più per scappare o affrontare il nemico. Le cose vanno un po’ meno bene nella società di oggi, nella quale è essenziale acquisire e valutare informazioni e prendere decisioni complesse. La nostra è una società della conoscenza e non da oggi: lo è, almeno, da quando ci siamo messi a riportare dati su tavolette d’argilla, se non da quando abbiamo cominciato a raccontarci storie intorno al fuoco. La complessità, come abbiamo visto, è il terreno della scienza e dei dati, il terreno in cui la conoscenza funziona meglio della paura.Conoscenza e paura sono opposte, perché la prima ha bisogno di lucidità, apertura mentale e libertà, mentre la seconda cerca risposte immediate, rassicuranti e autorità a cui obbedire. Abbiamo affrontato l’epidemia come un’emergenza continua, concentrandoci su una sola risposta: rimanere a casa. Per quanto necessaria, questa strategia elementare avrebbe avuto bisogno di altri interventi in profondità, per essere più efficace. Altri paesi, che hanno sviluppato soluzioni più lucide e organizzate, hanno dato prova migliore del nostro: dobbiamo riconoscerlo e, uscendo dall’emergenza, dobbiamo uscire dalla paura.