La strategia della crisi

L’effetto della pandemia sulle società occidentali è devastante: l’Europa e gli USA, per non parlare dei paesi sudamericani, hanno subito colpi durissimi, oltre che sul piano della salute, su quello economico e della stessa tenuta sociale e istituzionale. Certamente la nostra parte di mondo non era particolarmente preparata a un evento del genere, tanto che le malattie infettive erano considerate un retaggio del passato o un problema di Paesi poveri e con scarse infrastrutture igieniche e sanitarie; al massimo, una stranezza che affligge periodicamente Paesi lontani, nell’Estremo Oriente.

Anche per questo, nell’umanissimo tentativo di dare un senso agli eventi di oggi riportandoli a fatti noti, siamo portati a tornare a memorie lontane: se non alla grande peste del Trecento o a quella del Seicento, per lo meno all’epidemia di spagnola. Solo che, non appena proviamo a fare questi paragoni, ci si rende conto di quanto siano impropri: anche tralasciando le grandi catastrofi dei libri di storia, la spagnola ha infettato circa 500 milioni di persone e ne ha uccise 50 milioni, nell’arco di tre anni e su una popolazione globale di poco inferiore ai due miliardi. Insomma, si è ammalato un umano su quattro e uno su quaranta ne è morto; con il Covid-19 siamo (a oggi) a 75 milioni e mezzo di casi e quasi un milione e settecentomila morti, su una popolazione globale che, nel frattempo, ha superato i sette miliardi. Gli ordini di grandezza sono completamente diversi e anche la letalità è di gran lunga inferiore: se la spagnola uccideva in un caso su dieci, i decessi da Covid vanno rapportati ai 53 milioni di guarigioni, con una letalità del 3,2 per cento.

Per quanto devastante sia stata la spagnola, essa ha paradossalmente lasciato poche tracce nella memoria collettiva, tanto che i saggi che riflettono sulla sua influenza letteraria (si perdoni il gioco di parole) si chiedono come mai esse siano così scarse o arrivano a parlare di pandemia dimenticata. Anche dal punto di vista delle politiche e delle normative, è difficile individuare iniziative di un qualche rilievo collegate a questa tragedia: semmai, i grandi rivolgimenti degli anni successivi hanno cause ben diverse e ampiamente note. Ancora più significativo è il caso dell’influenza asiatica, che nel 1957-58 ha provocato tra uno e quattro milioni di morti, quindi un numero di vittime nell’ordine di grandezza del probabile bilancio finale del Covid, ma di cui si è praticamente persa ogni memoria.

D’altra parte, possiamo essere certi che il Covid introdurrà, anzi, che abbia già introdotto, cambiamenti significativi. Sul piano delle politiche economiche, la pandemia ha sbloccato il discorso degli eurobond e aperto una nuova stagione dell’integrazione europea, ha reso di nuovo praticabile in tutto il mondo l’intervento pubblico per alleviare i problemi sociali e sostenere l’economia, ha dato nuova centralità alla sanità pubblica e riaperto il problema della resilienza e della coesione delle nostre società. Su quello dei modi di vita, ha aperto la strada a una trasformazione digitale evocata da anni ma che ancora non era riuscita ad affermarsi, tra lavoro a distanza, didattica e formazione online e rafforzamento dei canali commerciali e distributivi via web. Su quello della produzione culturale è forse ancora presto, ma certo quest’anno ha sollevato interrogativi e attese di grande respiro, che riguardano tutto lo spettro della condizione umana, dai rapporti interpersonali agli spazi pubblici, dai bisogni di relazione alle nuove fragilità psicologiche ed esistenziali.

La domanda, a questo punto, è chiara: come è possibile che una pandemia di proporzioni relativamente modeste, almeno in rapporto ai suoi precedenti storici, contro la quale peraltro è già stato trovato il vaccino, ci abbia colpito così duramente? Per rispondere, può essere utile pensare a un fatto apparentemente del tutto eterogeneo: la guerra del Vietnam. Il conflitto è costato circa un milione di vittime vietnamite (tra militari e civili) e “appena” 58mila morti americani, eppure i primi hanno vinto e i secondi hanno perso. La chiave della vittoria vietnamita (o, a essere precisi, di nordvietnamiti e vietcong) può essere trovata in un passaggio di von Clausewitz:

Perché l’avversario sia costretto ad accedere alla nostra volontà, dobbiamo costringerlo in una situazione il cui svantaggio sia superiore al sacrificio che da lui esigiamo (Della guerra, I.1.4).

Insomma, gli USA si sono trovati in una situazione nella quale il prezzo della sconfitta (un Vietnam unito e comunista e la perdita di influenza nello scacchiere del Sud-Est asiatico) era inferiore a quello della prosecuzione della guerra, per i suoi costi umani, materiali e politici. Allo stesso modo, la Germania nazista non avrebbe mai potuto sconfiggere l’Unione Sovietica, perché, di fronte alla minaccia dell’annientamento, l’avversario non si arrenderà mai, finché avrà risorse da mobilitare, per quanto disperata sia la sua situazione. In altre parole, la questione fondamentale è determinare quale sia il livello di perdite accettabili pur di continuare uno sforzo o mantenere un dato assetto.

L’assetto delle nostre società nel contesto, per così dire, “pre-Covid” si basava su un certo livello di sicurezza e comfort, il cui mantenimento legittimava lo status quo e gli assetti sociali ed economici che lo garantivano. L’epidemia ha messo in evidenza la fragilità di questo equilibrio, sotto la triplice pressione della minaccia alla salute, della limitazione degli spazi e delle attività e di una nuova insicurezza economica. Ma questa pressione si aggiunge ad altri fattori di crisi, di portata ben maggiore ma meno immediati: la crisi ambientale, la fragilità delle condizioni economiche e la minaccia di impoverimento di larghe fasce della popolazione, lo svuotamento della capacità di incidere sulla realtà da parte degli attori pubblici e della politica, specie rispetto alla capacità di iniziativa dei grandi gruppi privati. I fattori che avevano causato questi elementi di crisi sono gli stessi che hanno portato alla sostanziale inadeguatezza con cui, in quasi tutto l’occidente, è stata affrontata la pandemia: l’imperativo dell’ottimizzazione, il feticcio delle esternalità, il predominio della finanza, l’incomprensione del nuovo paradigma digitale che è stato ricondotto a logiche di fatto obsolete, l’appiattimento di prospettiva sull’orizzonte dell’emergenza.

Ora, il dato interessante è che tutti questi problemi sono precipitati di fronte a una crisi di per sé minore rispetto alle altre, ma più immediatamente percepibile. Insomma, siamo collettivamente portati a riconoscere ciò che ci minaccia direttamente e a reagire alle conseguenze immediate, più che ad affrontare problemi che si pongono all’orizzonte e che richiedono un gran lavoro dai risultati non immediati. Lo abbiamo visto dopo la prima ondata, quando la scomparsa dell’epidemia dal nostro ristretto campo percettivo ha portato a ignorare i rischi di un suo ritorno e, anzi, a sabotare ogni tentativo di prepararsi. ui si trova, forse, la ragione per cui il Covid sta avendo un impatto tanto più forte della spagnola: perché la pandemia di oggi incide in modo molto più percepibile sul nostro vissuto quotidiano rispetto a una malattia che colpiva in un contesto nel quale era molto più comune ammalarsi e morire, a qualsiasi età e le grandi infezioni di massa erano un fenomeno, se non più abituale, certo non ancora inconsueto. Allo stesso modo, il grado di comodità e libertà delle nostre vite è, almeno in questa parte di mondo, immensamente superiore a quello di un secolo fa e, quindi, le restrizioni ci hanno colpito in modo molto più significativo.Il punto è, adesso, come pensare alla risposta di lungo periodo a questa crisi e al nuovo paradigma che va costruito, a tutti i livelli. Per rispolverare un’osservazione ormai trita, ogni crisi produce un’opportunità. Cerchiamo di coglierla, al di là dell’immediato: ecco perché serve una strategia capace di misurarsi con la reale posta in gioco, oggi e nel possibile futuro.

Info Autore
Chief of Strategy , Tombolini & Associati
Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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Chief of Strategy , Tombolini & Associati
Ho studiato filosofia alla Sapienza (tesi su Hegel, dottorato su Husserl, qualche pubblicazione qua e là) e, fin dai miei ultimi anni da studente, lavoro nella comunicazione e nell’analisi strategica. Adesso faccio queste cose con Tombolini & Associati, di cui sono socio e partner.
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2 commenti su “La strategia della crisi”

  1. Avatar

    Articolo molto interessante ma…
    Ma non è a mio avviso corretto considerare questa pandemia tanto diversa dalla “spagnola”.
    Qui https://dashboard.covstat.it/prevalenza_letalita.html si parla di un rapporto di 5 a 1 tra contagi reali e rilevati in IT (magari nei paesi del “sud del mondo il rapporto cresce anche).
    Quindi gli 85 milioni di contagi ad oggi sarebbero in realtà quasi 500milioni. Non siamo al 20% della popolazione mondiale, siamo all’8% circa (ma sono passati 12 mesi e non 3 anni ecc…
    Grazie comunque per tutti gli spunti e speriamo che il vaccino ci aiuti…

  2. Nane Cantatore
    Nane Cantatore

    Acuto rilievo, ma va detta una cosa: i dati che abbiamo sulla spagnola, ovviamente raccolti con strumenti e metodologie molto meno sofisticate rispetto a quanto disponibili oggi, si riferiscono ovviamente soltanto a casi sintomatici nei quali il virus era stato isolato. Perciò dobbiamo presumere una sottodiagnosi paragonabile a quella di oggi per il Covid.
    in ogni caso, resta la considerazione di fondo: la spagnola non ha cambiato il mondo, il Covid lo ha già fatto.

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