La pandemia ha colpito, a poche settimane di distanza, più o meno tutti i paesi dell’Europa occidentale. Ovunque sembra che si sia finalmente superato il picco della crisi e che, salvo sporadici focolai e limitate recrudescenze, almeno per il momento l’epidemia sembra tornata a livelli gestibili, pur con tutte le precauzioni del caso.
A questo punto, esistono due opzioni: si può considerare la questione sostanzialmente chiusa e passare ad altre emergenze, oppure si può cercare di capire cosa sia stato fatto bene e dove si possa migliorare, guardando anche a casi che possano fare scuola. È quasi superfluo dire che seconda opzione è preferibile, se non altro perché, a studiare le strategie più efficaci e a comprendere lo sviluppo delle crisi, a volte si riesce a evitare di passare da un’emergenza all’altra.
Per capire da che parte cercare le pratiche migliori, è fondamentale cercare casi sovrapponibili al nostro, colpiti in modo sostanzialmente analogo dall’epidemia; proprio per questo, la nostra analisi comparativa si limita all’Unione Europea con l’aggiunta di Regno Unito, Svizzera e Islanda. I dati provenienti da questi paesi presentano un profilo e un livello di affidabilità simili, le risorse economiche e le strutture sanitarie sono comunque paragonabili, i processi decisionali e il livello di sensibilità sui diritti civili sono analoghi. Per intendersi, un paragone con la Cina o la Corea sarebbe difficilmente proponibile, se non altro perché, al netto di tutte le altre enormi differenze, in questi contesti è stato molto facile imporre da subito misure di contenimento e tracciamento assai drastiche, improponibili in Europa.
Per questa ragione, abbiamo deciso di correlare le stime OCSE sulla portata della crisi economica nei diversi paesi a tre differenti indicatori sull’epidemia. Come si vede, possiamo evidenziare diversi gruppi, abbastanza costanti per tutti gli indicatori. Germania, Norvegia, Danimarca, Austria e Lussemburgo sono i paesi meno colpiti dagli aspetti economici della crisi e anche quelli con meno decessi rispetto alla popolazione e con il tasso più basso di decessi rispetto ai guariti (intorno al 5 per cento). Non sono però quelli con meno contagi rispetto alla popolazione: da questo punto di vista, anzi, ben 9 paesi, quasi un terzo del campione, hanno avuto un’incidenza minore di casi. Si tratta in prevalenza di stati dell’Europa centro-orientale, cui si aggiungono la Grecia e la Finlandia: sembra che questo risultato sia dovuto essenzialmente alla chiusura drastica delle frontiere e, in generale, alla loro posizione relativamente periferica rispetto ai flussi di movimento delle persone. In ogni caso, questi paesi hanno registrato, pur con meno casi, una performance peggiore rispetto al primo gruppo in termini di perdita prevista di PIL (si va dal -7,4% della Polonia al -9,6 della Rep. Ceca, rispetto al -6,6 della Germania, la nazione più colpita del “gruppo di testa”).
Vi è poi un “non gruppo”: Svezia e Irlanda, entrambe con un tasso di decessi e di contagi relativamente alto (per la Svezia non disponiamo del dato sulle guarigioni) e con un calo del PIL appena superiore a quello tedesco. Mentre l’Irlanda ricade appena al di fuori del primo gruppo, il caso svedese è molto significativo, dal momento che permette di valutare gli esiti della loro scelta di non introdurre misure di chiusura: il numero di casi è tra i più elevati e anche il tasso dei decessi rispetto alla popolazione è a livelli poco inferiori ai paesi più colpiti, senza contare che l’epidemia è iniziata decisamente più tardi che altrove per cui, come abbiamo già visto, questo dato è tristemente destinato a salire. Se la prestazione svedese è poco soddisfacente sul piano sanitario, sembra non essere particolarmente brillante nemmeno su quello economico, visto che si stima una perdita superiore a quella di paesi che hanno preso misure di contenimento ben più drastiche.
Esattamente al centro di tutti i grafici, per tutti e tre i parametri sanitari, troviamo Svizzera e Paesi Bassi. Anche qui, il primo paese, uno tra i primi a essere colpiti dall’epidemia, ha usato misure di contenimento abbastanza decise, mentre il secondo ha atteso fino all’ultimo. Andando più in dettaglio, vediamo che la Svizzera ha avuto un maggior tasso di contagi (3.635 per milioni di abitanti contro i 2.852 degli olandesi) ma meno decessi (228 per milione rispetto a 352); anche dal punto di vista dell’economia gli elvetici dovrebbero essere messi relativamente meglio, dato che l’OCSE stima un calo del PIL del 7,7 per cento rispetto al -8 previsto per i Paesi Bassi. Possiamo dire, quindi, che l’esperimento svedese (e olandese) sia stato tutt’altro che incoraggiante proprio dove doveva segnare i risultati migliori, quello economico. Ciò vale anche senza provare, come abbiamo fatto, a quantificare economicamente le maggiori perdite di vite e salute, che possono ragionevolmente essere messe in conto alla decisione di non procedere al contenimento.
Per quanto riguarda l’impatto sanitario, va detto che un aspetto chiave è la precocità dell’epidemia: i paesi colpiti per primi hanno avuto il compito più difficile, sia perché hanno dovuto definire strada facendo tutti i protocolli, sia perché, andando avanti, si sono sviluppate terapie più efficaci. La perfomance di Germania, Austria e Svizzera, pertanto, è ancora più notevole dato che sono stati tra i primi paesi più colpiti, con l’epidemia che aveva cominciato a correre già tra la fine della prima settimana di marzo e l’inizio della seconda, pochi giorni dopo l’Italia.Venendo a noi, vediamo che l’Italia è nel gruppo con i risultati peggiori sia per PIL, con una perdita stimata dell’11,3 per cento, sia rispetto a tutti gli indicatori sanitari. In questo cluster si trovano anche la Spagna, il Regno Unito e in parte la Francia, che però ha fatto molto peggio per il tasso di decessi sulle guarigioni: 40,23 per cento rispetto al 19,27 dell’Italia e al 18,05 spagnolo. Qui manca il dato britannico, visto che non disponiamo del numero di guarigioni, ma è facile notare quanto siamo lontani dal 5 per cento circa del gruppo di testa. Il verdetto dei numeri è chiaro: non è andata per niente bene. Adesso che ne abbiamo conferma, e soprattutto che sappiamo dove si trovano le pratiche di riferimento, cominciamo a esaminare le ragioni del successo di chi ha fatto meglio: per una volta, cerchiamo di copiare dai più bravi.